Quando vincere non basta: riflessioni psicologiche a partire da una sconfitta di Sinner

“La mia sconfitta al Roland Garros puoi vederla in due modi: o ti soffermi sui match point sprecati o sul fatto che sia stata la mia miglior partita sulla terra.”
— Jannik Sinner

C’è una lucidità disarmante in questa frase di Sinner. Una lucidità che, detta da un campione di ventidue anni, colpisce come una lezione di psicologia inaspettata. Perché Sinner non sta solo parlando di sport, ma di uno specchio della nostra società. E di quanto sia fragile la relazione che abbiamo costruito con l’idea di fallimento.

Negli ultimi mesi, Sinner era diventato il simbolo di un’Italia sportiva finalmente vincente, un esempio da esibire, da imitare, da celebrare. In una società in cui il valore sembra misurarsi sempre più attraverso ciò che si riesce a dimostrare, la sua figura rappresentava alla perfezione l’immagine ideale di successo: giovane, talentuoso, corretto, performante. Per molte persone, incarnava non solo un modello da seguire, ma un rispecchiamento quasi personale di quell’idea di efficienza, controllo e perfezione che si cerca faticosamente di raggiungere. E proprio perché investito di questo ruolo simbolico, nel momento in cui ha perso una partita — forse la più bella della sua carriera — l’opinione pubblica si è divisa, e una parte, la più rumorosa, si è trasformata in un tribunale.

Eppure, cos’è cambiato davvero? Solo il risultato.

L’illusione della perfezione continua

Viviamo in una società che ci educa — fin dall’infanzia — a pensare che valiamo solo se siamo al massimo: belli, preparati, impeccabili. Che dobbiamo fare tutto bene, sempre. E non solo: dobbiamo anche sembrare felici mentre lo facciamo. Non c’è spazio per il dubbio, la fatica, il calo, la fragilità. Chi si ferma è perduto. Chi sbaglia viene messo in discussione. Chi perde, viene dimenticato o criticato.

Questa visione iperperformativa non riguarda solo gli sportivi. È il modello implicito che guida la vita quotidiana di moltissimi ragazzi, adulti, professionisti. La paura di deludere gli altri e di deludere sé stessi si annida in ogni errore, anche minimo. Perché sappiamo che non ci sarà sempre comprensione, ma molto spesso ci sarà giudizio.

Il peso di essere “vincenti”

Chi ha una personalità orientata alla prestazione e all’eccellenza — come molti atleti, ma anche studenti brillanti, professionisti ambiziosi, genitori iperimpegnati — vive spesso una trappola invisibile: non poter fallire mai. Non potersi permettere nemmeno una sbavatura.

In terapia vediamo ogni giorno persone che si sentono “un disastro” per una dimenticanza, un errore, una giornata storta. Perché quella voce interiore — alimentata anche da ciò che la società comunica — non lascia margini di umanità. È come se il valore personale fosse legato unicamente alla prestazione. Ma nessuno può vivere così, senza pagarne un prezzo.

Sinner ha perso. Ma ha anche vinto.

È interessante che lo stesso Sinner, pur parlando da sconfitto, abbia detto qualcosa di profondamente vincente: “È stata la mia miglior partita sulla terra.”
Questo significa sapersi osservare da dentro, riconoscere lo sforzo, dare valore alla crescita e non solo al risultato. Significa uscire dalla logica binaria successo = valore / fallimento = disvalore.
Una logica tossica, disumanizzante e, paradossalmente, perdente.

Quando una sconfitta diventa un insegnamento per tutti

Se anche Sinner — uno dei giovani più talentuosi del tennis mondiale — può essere messo in discussione per una sconfitta dopo mesi di risultati eccezionali, quanto può sentirsi “sbagliata” una persona fragile che cade una volta sola? Quanto può sentirsi inutile un ragazzo che prende un brutto voto dopo una serie di successi scolastici? Quanto può pesare un errore in una relazione o in ambito lavorativo?

Se vogliamo costruire una società più sana, più umana, più psicologicamente forte, dobbiamo iniziare da qui: dal modo in cui guardiamo il fallimento nostro e altrui.

Dobbiamo imparare a considerare la caduta parte integrante del percorso, e non una sua interruzione. Dobbiamo insegnare che la prestazione non è tutto. Che la crescita personale è fatta anche di pause, esitazioni, battute d’arresto. E che dietro ogni sconfitta può esserci la partita migliore della nostra vita.

Torna in alto