Quando morirà anche l’ultima madre che piange, chi avrà vinto?

(Uno sguardo psicologico sulla catastrofe umana oltre ogni confine politico)

Ci sono immagini che non hanno bisogno di spiegazioni. Come quella che ritrae due bambini che corrono sotto un cielo in fiamme, mentre ai lati sventolano due bandiere – due identità, due terre, due popoli. E, al centro, la vita che fugge dalle macerie. La vita che resiste. La vita che soffre.

Non parliamo di politica. Non è questo il luogo. Qui parliamo di esseri umani. Di dolore. Di paura. Di infanzia negata.

In questi mesi, sui nostri schermi scorrono numeri e notizie: migliaia di morti, assalti, prigionie, bombe. Ma i numeri, per loro natura, anestetizzano. Riducono il dolore a una statistica. Le lacrime a una percentuale. Le urla a un rumore di fondo.

Ma cosa accade davvero nel cuore di un bambino sotto le bombe?

Un bambino non ha ideologie. Non ha confini. Ha solo bisogno di vivere. Di dormire abbracciato a un peluche. Di andare a scuola. Di sapere che, se sente un tuono, non è una bomba.

E invece, per molti bambini oggi, i muri di casa sono crollati. Le aule sono vuote. Le favole si sono fermate. Si svegliano nella notte al suono delle sirene. Dormono con le scarpe ai piedi, pronti a fuggire. Hanno imparato parole come “rifugio”, “drone”, “martire”, “assedio”. Hanno visto cadere fratelli, sorelle, amici. Hanno smesso di giocare. E troppo spesso hanno smesso di parlare.

E poi ci sono le madri.

Quelle che camminano scalze tra le macerie con la foto del figlio tra le mani. Quelle che hanno smesso di urlare perché hanno finito la voce. Quelle che stringono un corpo che non respira più, e non riescono a lasciarlo andare.

Perché nessuna madre dovrebbe sopravvivere a un figlio. Eppure accade. Ogni giorno. Ovunque.

E allora viene da chiedersi: quando morirà anche l’ultima madre che piange, chi potrà dire di aver vinto? Che senso ha una vittoria costruita sulla morte di bambini? Che senso ha l’orgoglio se lascia solo deserto e pianto?

La psicologia, in tutto questo, può solo testimoniare il trauma. Raccogliere i pezzi di un’umanità frantumata. Ascoltare i silenzi, i disturbi del sonno, la rabbia, la colpa dei sopravvissuti. Curare chi può essere curato. E, a volte, restare impotente.

Ma come esseri umani, abbiamo un compito. Un dovere. Quello di non voltare lo sguardo. Di non cadere nel cinismo. Di non ridurre il dolore a una guerra di opinioni.

Questa non è più una questione politica. È una questione umana.

Non importa da che parte arrivino le bombe. Ogni bambino che muore è un fallimento del genere umano. Ogni madre che piange è una ferita nel nostro cuore collettivo. Ogni casa distrutta, ogni scuola rasa al suolo, ogni ospedale che crolla, è un pezzo di civiltà che viene giù con loro.

Ricordiamoci allora che esiste un confine che precede tutte le frontiere: quello dell’empatia. E che davanti a un bambino in lacrime, l’unica parte da prendere è quella della vita.

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