Morire a 14 anni per colpa di un “amore” malato

Il caso di Martina, assassinata dal fidanzato diciannovenne, è solo l’ultimo, tragico episodio di una lunga scia di femminicidi.

Questa volta a colpire è l’età della vittima: Martina aveva solo 14 anni.

Quanto accaduto evidenzia ancora una volta una profonda emergenza culturale, educativa ed emotiva. In molti hanno giustamente sottolineato il tema dell’analfabetismo emotivo tra i giovani — una realtà preoccupante, che però non riguarda soltanto le nuove generazioni, ma anche gli adulti.

Spesso, all’interno delle famiglie, mancano spazi di confronto autentico. I genitori, pur con le migliori intenzioni, tendono a sostituire l’educazione emotiva con beni materiali, senza trasmettere strumenti essenziali come il senso del limite, l’importanza delle regole, la gestione della frustrazione. Eppure è proprio l’esperienza precoce della frustrazione a rendere possibile, da adulti, la sua elaborazione e tolleranza.

Educare all’affettività significa insegnare a riconoscere e comprendere le proprie emozioni, a individuarne le cause profonde, a interrogarsi su pensieri e reazioni. Un percorso che richiederebbe, idealmente, anche il supporto di professionisti della salute mentale.

Ma l’accesso alla psicoterapia non è sempre possibile: non solo per barriere culturali, ma anche per motivi economici.

È per questo che la scuola dovrebbe assumere un ruolo centrale nella promozione dell’educazione affettiva, lavorando non solo con gli studenti, ma anche con le famiglie. Perché spesso, proprio all’interno del nucleo familiare, il linguaggio emotivo è assente o disfunzionale, e non sono rari gli episodi di reazioni spropositate, uso di sostanze o vera e propria violenza domestica.

Chi opera nel sociale sa quanto questi fenomeni siano frequenti e radicati. Quando un figlio arriva a usare violenza verso un genitore, non è sufficiente imputare il gesto all’uso di sostanze. Occorre analizzare il contesto familiare e relazionale che ha generato quel disagio.

Ma non possiamo fermarci alla famiglia. Anche le istituzioni hanno una responsabilità. Molte scuole si concentrano unicamente sul rendimento, trascurando la dimensione emotiva e relazionale degli studenti.

A ciò si aggiunge una carenza di opportunità educative e ricreative — soprattutto di tipo sportivo — che possano rappresentare alternative sane e strutturate per l’espressione dell’energia e dei bisogni dei più giovani.

In assenza di un impegno collettivo — educativo, familiare, sociale e istituzionale — continueremo ad assistere a tragedie come quella di Martina.

E ogni volta sarà troppo tardi.

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